Del festival internazionale del giornalismo, appena concluso, si sono sottolineati da più parti diversi elementi positivi. Ce n’è uno però, che forse non è stato adeguatamente interpretato: si tratta di un evento che punta al futuro senza indugiare in facili scorciatoie, e che guarda al pubblico senza assecondarne gli istinti più bassi. E ci riesce. Bene
Che cosa vuoi scrivere di più rispetto a ciò che è già stato scritto di un festival del giornalismo che si fregia dell’aggettivo internazionale non millantando alcunché, poiché ha una dimensione davvero internazionale (cosa non da poco in un’epoca la cui religione più praticata è la ricerca di visibilità a ogni costo e i millantatori te li trovi tra i piedi a ogni angolo)? Che cosa vuoi aggiungere a ciò che è già stato detto di un evento a cui danno vita centinaia di relatori e a cui partecipano migliaia di persone da tutto il mondo? Perché, insomma, qualcuno dovrebbe essere interessato a leggere questo articolo?
L’essenza
Perché proveremo ad argomentare che il contributo del festival internazionale del giornalismo che si tiene a Perugia ormai da anni a ogni inizio aprile, va molto al di là del valore (altissimo) dei relatori; dei temi trattati che sono di interesse cruciale; del fatto che agli incontri ti capita di trovarti seduto vicino a persone tedesche, filippine, hawaiane, americane, russe, slovene, magrebine e ti dici: «oh, la globalizzazione, quella vera, finalmente»; va al di là della perfezione della macchina organizzativa che riesce a tenere insieme con puntualità strabiliante centinaia di eventi con relativa diretta streaming; va al di là di tutto questo che è di evidenza macroscopica. Il festival internazionale del giornalismo di Perugia è più di tutto questo perché è la speranza di poter guardare avanti senza farsi prendere da un nodo alla gola. Un’altra cosa non da poco, in un’epoca che ha abolito la speranza. E da che nasce questa speranza? Dall’essenza del festival stesso, che è quella di portare la qualità a un livello popolare. E qui dobbiamo intenderci sul sostantivo qualità e sull’aggettivo popolare.
Qualità, non parole
Allora. Qual è l’accezione di qualità in questo contesto? Ora faremo un elenco di cose che a prima vista sembreranno scontate; mentre le leggerete però, tenete sempre in mente il contesto in cui stiamo, ricordate gli ospiti che vedete in tv e contate quante volte li avete già visti; ricordate le persone che godono di maggiore visibilità o ne vanno in cerca; cercate di ricordare l’ultima volta che le avete sentite dire qualcosa che vi ha colpito positivamente. Bene, allora: qualità significa dare voce a persone che hanno cognizione del tema di cui parleranno. Al festival i relatori hanno scritto libri sui temi di cui vengono a parlare, o come minimo hanno effettuato ricerche approfondite, oppure sono chiamati a parlare di cose che hanno vissuto direttamente. Qualità significa offrire un servizio reale: tu puoi avercela quanto vuoi contro lo strapotere di Faceboook e Google, ma ascoltare da persone che lavorano lì dentro consigli su come gestire nella maniera più efficace una pagina per la tua attività sui social o su come affinare i metodi di ricerca all’interno del motore che si è affermato come pressoché l’unico al mondo, è un’opportunità di arricchimento. Qualità è affrontare temi di interesse cruciale per l’attualità con le persone che ne hanno competenze di cui sopra. E quando un tema è di interesse cruciale per l’attualità, in genere contamina anche il futuro. Non è cioè così legato al qui e ora come sembra. Al qui e ora senza futuro è legato il fast food dell’informazione a cui ci hanno abituato. Il tema dei migranti slegato dalle enormità della campagna elettorale, le guerre che ci stanno intorno e le ragioni che le muovono, le molestie e le violenze subite dalle donne semplicemente perché donne. Questi sono tutti temi di attualità che se li affronti bene prepari bene il futuro. E al festival internazionale del giornalismo questo è stato fatto.
Servire il popolo
E veniamo al secondo punto: in che senso popolare? Il festival è popolare nel senso che serve il popolo, cioè le persone comuni. Con due accorgimenti: non tenta di indottrinarle né di assecondarne gli egoismi. Sbaglierebbe chi pensasse al festival di Perugia come un appuntamento “chiuso” ai giornalisti, per addetti ai lavori. Intanto perché per sua natura il giornalismo è qualcosa di aperto: raccoglie cose da fuori, le rielabora e le restituisce all’esterno. Quindi già essere “di servizio” per i giornalisti, sarebbe in qualche misura essere popolare. Ma c’è molto di più. Perché il festival è in connessione diretta col popolo, lo dimostrano le file di persone in attesa per assistere agli incontri dove non si distribuisce cibo gratis ma conoscenza. Ed è popolare, nel senso di servire il popolo, perché fornisce elementi e al tempo stresso chiede uno sforzo di comprensione e quindi invita a un protagonismo sano. Non c’è niente di popolare nel vellicare gli istinti più bassi. Quella è invece l’accezione più in voga oggi dell’aggettivo popolare, che ha invece più a che fare col concetto di bulimia che di popolarità. Popolare è offrire un contributo per andare un po’ più su, un po’ più in là di dove si è. Popolare è aver dato qualcosa a qualcuno che esce arricchito da un incontro e che probabilmente a sua volta arricchirà chi gli si avvicinerà.
La misura, la non misura
Detto tutto questo, non c’è unità di misura certa per definire qualità e popolarità. E ci sarà sicuramente chi avrà da opinare questo e quello su quanto scritto finora. Perché è vero, si può misurare la “grandezza” della partecipazione a un evento ma è assai difficile dire qualcosa sull’effetto che un evento produce su qualcuno. Altresì, tu puoi dire quanto pesa e quanto è alta una persona: ma se pesa duecento chili non è detto che sia migliore di una che ne pesa settanta; e se è alta due metri non è detto che abbia da insegnare qualcosa a chi non va oltre il metro e mezzo. Anche questo concetto è di una banalità esasperante. Però giova ribadirlo in un mondo che insegue i “record di partecipazione” e in cui l’affluenza, la bilancia e il metro diventano la misura del tutto assecondando la bulimia di cui sopra, che andrebbe invece combattuta in quanto patologia. Insomma, la quantità è uno dei misuratori della qualità e della popolarità di una proposta, non l’unico; se lo diventa, c’è un problema. E comunque al festival internazionale del giornalismo di quantità ce n’è stata. Tanta. Ma per definire il festival popolare e di qualità, visto che popolarità e qualità non sono facilmente misurabili serve introdurre un altro concetto: quello della trasparenza.
Trasparenza
Arianna Ciccone e Christopher Potter, gli organizzatori del festival internazionale del giornalismo, non dispensano verità. Né inseguono record. Nei loro resoconti di fine edizione si sono sempre rifiutati di fornire numeri, benché il successo in termini di quantità sia sotto gli occhi di tutti. Perché? Perché non è quello, o comunque non è solo quello che interessa loro. A loro interessa fare un passo in avanti ogni volta. Lo dicono e si vede di anno in anno quanto l’obiettivo sia perseguito col massimo impegno, loro e dello staff. Certo, si può sbagliare. Sta di fatto che quello che il festival fa è portare con trasparenza i suoi contenuti, che sono quelli che nel momento e per il modo in cui vengono affrontati sono sì legati al qui e ora ma sono passibili di conseguenze per il futuro. E così contribuiscono a costruirlo bene. Almeno nelle intenzioni. Dando e ricevendo, ma in un rapporto autentico, di scambio, che è l’esatto contrario della compravendita.
Guardare avanti
Tutti questi elementi contribuiscono a una miscela formidabile. Perché qualità, popolarità e trasparenza consentono di instaurare un legame con le persone sempre più forte in quanto vero, non prodotto di laboratorio o di chissà quali scelte di marketing. Vero perché si nutre della passione e della competenza di chi organizza e di chi fruisce, in un rapporto che non è niente affatto gerarchico, né del tipo docente-discente. Ci si arricchisce, al festival. Se ne esce meglio di come vi si entra. Tutti. Organizzatori e fruitori. Relatori e partecipanti. Il tutto sullo sfondo di una città che pare la cornice su misura per un quadro del genere, la superficie ideale su cui affrescare. In una dimensione che asseconda la natura di tutti: persone e piazze e strade e negozi. Anche questa pare una banalità. Eppure guardiamoci intorno: siamo abituati a eventi che puntano ad estrarre succo e anima dalle città più che ad adagiarvisi con rispetto e goderle nella loro essenza.
In questo senso, per tutti questi motivi il festival internazionale del giornalismo è una speranza: perché consente di guardare avanti e di ritenere con buona approssimazione che le cose fatte con passione, chiamando a una partecipazione reale ed evitando scorciatoie che si rivelano senza uscita hanno un senso e ne avranno ancora e sempre più domani. Producono frutti buoni. Anche questo potrebbe sembrare banale, ma non è affatto scontato in un mondo che pare vivere in un eterno presente e non guarda più al domani, se non per amputarlo.
In copertina, persone in fila in attesa di partecipare a un evento del festival; foto di Mattia De Virgiliis tratta dal profilo facebook del festival del giornalismo