Non è lavoro, è sfruttamento è un “libro necessario”, come direbbero i Wu Ming. Necessario perché racconta il tempo in cui viviamo attraverso il fenomeno che più coinvolge, forse, gli esseri umani oggi: il lavoro, e il suo svilimento. E lo fa unendo chiarezza, rigore e passione. Insomma, pancia e testa. E Marta Fana, l’autrice, che proprio mainstream non è, lo ha pubblicato con Laterza, una casa editrice che invece lo è, mainstream. Ma è giusto così: questi temi, queste denunce, queste lotte vanno veicolati nei circuiti “che contano”, quelli più visibili, quelli che ti permettono di essere letto di più, di fare bella mostra in una vetrina di una libreria importante, anche di una grande catena, o perfino in autogrill, di ricevere recensioni per i giornali e le riviste più vendute. Vanno divulgati più che si può; e al diavolo il settarismo, i tomi incomprensibili e lunghissimi, i paroloni, le astrazioni che non portano da nessuna parte. Questo libro può essere letto da tutti: anche e soprattutto da chi è sfruttato nel lavoro, che poi è la cosa più importante. Perché è una specie di inno alla battaglia, uno schiaffo salutare, un bicchiere di acqua fredda in faccia che ti risveglia dal torpore, dalla rassegnazione, dalla paura. Ecco, per questo è un “libro necessario”.
Racconta dell’umiliazione patita dai lavoratori (e dai disoccupati) di oggi, relegati in una periferia non tanto e non solo urbanistica, ma sociale; intrappolati lì dal ricatto, arma letale usata da chi sta sopra contro chi sta sotto. E chi sta sotto perde la dignità, quella che dovrebbe essere garantita a ogni essere umano, indipendentemente da ciò che fa nella vita. Una dignità che si può perdere in tanti modi: venendo pagati con gli scontrini, come i “volontari” della Biblioteca Nazionale di Roma; essendo “bannati” dall’algoritmo che gestisce le piattaforme di lavoro online, anziché licenziati faccia a faccia; lavorando gratuitamente, senza compenso, per aggiungere righe per un inutile curriculum vitae; oppure sentendosi dire che è più importante andare a giocare a calcetto, magari con chi conta, piuttosto che, appunto, mandare curriculum vitae. Di esempi così Fana ne fa a bizzeffe: ne è pieno il libro, purtroppo.
Tutto questo non è venuto per caso, non è, come dicono quelli di Podemos, un “fenomeno meteorologico”, una sciagura piovuta dal cielo: è invece il frutto, come ripete più e più volte Fana, di precise scelte tutte politiche, fatte in barba alla nostra Costituzione e finalizzate a realizzare il moloch della “riforma”. Riforma del lavoro, naturalmente: dal pacchetto Treu al Jobs Act, un susseguirsi di leggi, decreti, emendamenti e manovre che hanno sempre più precarizzato e reso insopportabilmente insicuri i lavoratori. I lavoratori: cioè la classe lavoratrice. Fana non ha certo paura di parlare proprio di classe e di conflitto di classe, di necessità di organizzazione, di espropri: insomma, delle cose di Marx, che evidentemente non è poi così inattuale e passato di moda. Purtroppo, aggiungiamo di nuovo: sarebbe bello se non dovessimo ricorrere ancora a lui per interpretare e cambiare il mondo, significherebbe che gli sfruttati non esistono più. Ma non è così. Perché gli sfruttati esistono, eccome, e sono subalterni, perché frammentati e soli. E, scrive Fana, attingendo ancora allo stesso album di famiglia, devono riscattarsi per “ribaltare rivoluzionariamente lo stato di cose presenti”: non è Lenin che parla nel 1917, ma una ricercatrice che, cent’anni dopo, chiude così il suo volume e deve usare, ancora, le parole d’ordine di un secolo fa. E come si fa a riscattarsi? Innanzitutto, prendendo coscienza delle propria condizione (la coscienza di classe!), capendo che si è sulla stessa barca, che i bisogni, le difficoltà, le paure, le incertezze sono le stesse, o perlomeno molto molto simili. Che sì, c’è l’individualizzazione, l’atomizzazione, la società-puzzle e tutto il resto, ma la condizione materiale è quella, per tutti.
E la battaglia non è solo politico-economica, ma anche culturale. Senza scomodare per forza Gramsci su questo, si può dire che occorre sfatare miti e narrazioni così diffusi che ormai fanno senso comune. Gli esempi che cita Fana sono tanti e diversi tra loro: che bisogna fare i sacrifici, e sono i lavoratori a doverli sopportare; che il merito, l’impegno, pagano, e che quindi ognuno è responsabile del proprio destino; che la sharing economy è bella, buona, condivisa e forse è anche il nuovo mutualismo cooperativo. E via così, di falsi racconti in falsi racconti, da smontare con opportuna opera di debunking.
Fana parla di un progetto neoliberista, di un “loro” che sono i responsabili della deriva; ma, qua e là nel corso del libro, emergono altri soggetti che, se non direttamente responsabili, sono forse complici oppure hanno avallato narrazioni e riforme: i sindacati (non tutti e non tutti allo stesso modo); ed anche le cooperative, almeno quelle che sfruttano il nome e la ragione sociale mutualistica, per ottenere appalti al ribasso dal pubblico, vantaggi fiscali e normativa più elastica nei rapporti di lavoro. Un tradimento? E, aggiungiamo noi, pure i partiti, quelli della sinistra socialdemocratica e non: vanno tirati in ballo anche questi, tra i “loro”, perché niente affatto esenti da colpe.
Insomma, Non è lavoro, è sfruttamento è un libro che doveva uscire, oggi, non domani o dopodomani: tempo non ce n’è, bisogna agire. Anche con questo volume, portato in tasca e fissato nella testa.
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