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Sono diversi anni che sul 25 Aprile si vanno condensando tensioni. Il punto è che col passare del tempo il terreno smotta sempre più. Il cedimento è direttamente proporzionale alla presa di egemonia e all’occupazione di cariche istituzionali da parte di persone e partiti che pur non dichiarandosi apertamente fascisti, hanno conferito in discarica la pregiudiziale antifascista e si comportano di conseguenza. Cosa che non sarebbe grave se quella pregiudiziale non fosse il fondamento della Repubblica. E neanche se da ciò non derivasse una distorsione di significati che arriva al ribaltamento dei ruoli, alla caricatura delle ricostruzioni storiche.

Lo smottamento che mina il 25 Aprile è tale che quest’anno in diverse parti d’Italia si è arrivati a polemizzare aspramente sull’opportunità di far intonare a cori e bande la canzone che è il simbolo della Resistenza: Bella ciao. È successo a Quarto d’Altino, piccolo comune dell’hinterland di Venezia, dove quando il coro dei ragazzini della scuola media Roncalli ha intonato la canzone, due sindaci (uno leghista e uno più genericamente “di centrodestra”) e il vicepresidente della Regione (leghista pure lui), se ne sono andati impettiti in segno di protesta. Un po’ più a ovest, sempre nel profondo nord, ad Agrate Brianza, un genitore si è detto «indignato» preventivamente perché nella scuola elementare frequentata da suo figlio, per festeggiare il 25 Aprile, ai bambini si stava insegnando Bella ciao, che sarebbe stata poi cantata in occasione della festa. Spingendosi ancora più a ovest, a Sant’Albano Stura, in provincia di Cuneo, la presidente provinciale dell’Anpi ha lamentato che alla banda è stato vietato di eseguire Bella ciao. La stessa cosa è avvenuta ad Amelia, in provincia di Terni. Mentre a Todi, in provincia di Perugia, il sindaco ha negato per la prima volta il patrocinio alla manifestazione dell’Anpi.

Tutti questi episodi, come vedremo, sono accomunati da una costante. Ma partiamo dall’inizio: perché censurare una canzone, e perché quella canzone? Perché è in atto un tentativo, per certi versi assai ben riuscito – sebbene a volte messo in atto inconsapevolmente dagli stessi protagonisti – di anestetizzare il 25 Aprile. La festa è nazionale, e da questo non si scappa. Perciò anche sindaci leghisti e cosidetti di centrodestra sono costretti quel giorno a indossare la fascia tricolore, farsi vedere in piazza e abborracciare un qualche tipo di discorso anche se ne farebbero volentieri a meno. Ne farebbero a meno non perché siano fascisti, bensì perché cresciuti secondo l’adagio che Mussolini ha fatto anche cose buone, che i comunisti sono stati molto peggio dei fascisti, e che anzi, i comunisti sono tuttora una minaccia, mentre i fascisti non ci sono più. Ma la carta forte di questo modo di pensare è che non è il caso di dividersi. È l’appello alla riconciliazione la vera arma di distrazione di massa di questa vasta schiera di personaggi. Il 25 Aprile è una festa di tutti, li si sente argomentare, non è il caso di macchiarlo con canzoni e contenuti di parte. È un appello ai buoni sentimenti che per questo fa breccia in vasti strati di opinione pubblica. Perché indugiare sulle divisioni? Siamo tutti nella stessa barca, siamo tutti italiani, siamo tutti uguali. Al di là del fatto che questo è uno degli assiomi del fascismo – il negare le differenze di interessi, di appartenenza sociale, per esaltare quelle di sangue e nascita -, sostenere che il 25 Aprile debba essere di tutti per censurare i canti della parte senza la quale il 25 Aprile non ci sarebbe stato, è, semplicemente, una contraddizione in termini. Ed è la naturale conseguenza dell’anestetizzazione del 25 Aprile: lo si festeggia, sì, ma privandolo dei suoi contenuti.

La costante

Matteo Romanello è sindaco di Marcon, ed è uno dei tre esponenti istituzionali che hanno alzato i tacchi in segno di protesta lasciando soli i ragazzini che cantavano Bella ciao a Quarto d’Altino. Ha riportato sul suo profilo facebook un pezzo del discorso pronunciato il giorno della Liberazione. Eccolo: «Con il 25 aprile celebriamo la Festa della libertà, quale espressione di un sentimento nazionale unitario. In questa ricorrenza tutto il popolo italiano e tutte le parti politiche devono riconoscersi nel valore più grande, nella libertà…Dopo 73 anni la nostra missione è andare oltre quel compromesso storico sancito dai padri costituenti che generó la Ns (così nel testo originale, ndr) Costituzione repubblicana, spogliandosi da qualsiasi pregiudizio ed opinione, nel rispetto dei principi di democrazia e di libertà» (corsivo nostro). Dopo le polemiche, Romanello ha specificato ulteriormente il suo pensiero sul social network con un altro post, condendolo con degli hashtag: «Da padre non accetto che nelle scuole #PUBBLICHE, spudoratamente si insegnino canzoni riconducibili a fazioni politiche, ne tantomeno accetto che si utilizzino i #bambini per scopi di questo tipo… #no #politica #nellescuole». (corsivo sempre nostro).

Il genitore di Agrate Brianza, ha argomentato così la sua indignazione: «Sono indignato perché la scuola vuole utilizzare i nostri figli come strumento politico da esibire durante le celebrazioni del 25 aprile prossimo. La vogliono spacciare come saggio musicale, ma in realtà stanno da giorni insegnando ai bambini, in modo costante, la canzone “Bella Ciao” che, chiaramente, sarà il loro inno durante le celebrazioni la mattina del 25 aprile sulla piazza comunale. Credo che, parere politico favorevole o no, sia vergognoso che l’istituzione scuola lo permetta». E ancora: «Non sono contrario a celebrare la festa della liberazione, ma solo a questo canto perché ai bambini va spiegato come nasce “Bella ciao” e sarei contrario anche se avessero cantato “Faccetta nera”».

Il sindaco di Todi, Antonino Ruggiano, da parte sua, ha spiegato così la decisione inedita di negare il patrocinio del Comune alla manifestazione dell’Anpi: «Mi dispiace molto perché in una giornata come questa si dovrebbe stare tutti insieme». Andrea Nulli, consigliere comunale di Casapound, formazione che fa parte della maggioranza che sostiene Ruggiano, ha difeso il suo sindaco spiegando al Corriere dell’Umbria che la sua intenzione era quella di «celebrare questa ricorrenza nella maniera più istituzionale possibile, allargarla anche a chi non si riconosce strettamente nell’antifascismo radicale dell’Anpi». (corsivo nostro).

La capriola

In uno schema del genere, i buoni sono quelli che includono, che vogliono che la festa sia di tutti, in un crescendo irresistibile in cui il consigliere di Casapound arriva a dire che il 25 Aprile dev’essere festeggiato nella maniera più istituzionale possibile. Si arriva così, attraverso l’anestetizzazione del 25 Aprile, al capolavoro: il rovesciamento del senso della festa. Che non è più di Liberazione, ma di libertà. Perché la libertà è un anelito, poco più di un sostantivo in questo contesto. Mentre la Liberazione che si festeggia il 25 Aprile è sangue e nervi, vita pulsante, è Liberazione da qualcuno. E se dici Liberazione, devi esplicitare anche da chi ti sei liberato. Se invece dici libertà non offendi nessuno, puoi stare bene a tutti. Ne discende che se la Liberazione è la festa di tutti, guai a macchiarla con canzoni e contenuti di parte. I cattivi quindi, ovvio, diventano quelli che si ostinano a ricordare come sono andate le cose. Così il rovesciamento è compiuto. I cattivi non sono quegli italiani fedeli al duce e al fuhrer che si allearono con i tedeschi e combatterono al loro fianco contro il popolo italiano; i cattivi non sono i delatori, i torturatori, i complici di un esercito di occupazione che obbediva a un capo straniero che aveva imposto all’Italia le leggi razziali. I cattivi non sono i figli, i nipoti e i pronipoti degli alleati italiani degli sterminatori di ebrei, gay, rom che negano l’evidenza. No. I cattivi sono quelli che ricordano tutte queste cose e le cantano e le insegnano per trasmettere la storia. Insegnano che la libertà non è piovuta dal cielo ma è stata il frutto di una Liberazione. Insegnano che sì, c’erano parti in conflitto. Una attaccava, incendiava, deportava, uccideva; l’altra faceva Resistenza. Dire tutto questo significa ammettere l’esistenza di parti e significa dover dichiarare da che parte si sta. Non dirlo, negare l’esistenza di parti per fare dell’ecumenismo strumentale, è mefitico per la stessa convivenza civile. Sostenere che il 25 Aprile è di tutti, anestetizzarlo e affogarlo in un ricordo tossico facendo leva sui (falsi) buoni sentimenti della riconciliazione, è negare la nascita della Repubblica al pari della negazione che ne fanno gli eredi di Salò. È che c’è una parte, tra le due che si fronteggiarono, così impresentabile che è meglio confonderla evitando di entrare nel merito: riconciliamoci, è l’invito, non stiamo a indugiare sul passato, ed evitiamo di cantare Bella ciao, che è divisiva. Insomma, la si butta in caciara, con un doppio risultato: si negano le responsabilità dei nazifascisti che commisero atrocità allora, e si trasformano in cattivi coloro che oggi le ricordano. Un capolavoro.

Che è successo?

Perché accade tutto questo oggi? Il Msi, erede storico del fascismo e della Repubblica di Salò, è stato per decenni sulla scena politica e in Parlamento. Nella sua storia, alle elezioni ha preso tra il milione e mezzo e i tre milioni di voti. Non proprio bruscolini. Eppure, nonostante la presenza sulla scena di un partito dichiaratamente fascista, polemiche come quelle di oggi sul 25 Aprile e su Bella ciao non ci sono mai state, fin quando il Msi è esistito. Perché invece ci sono oggi, che in Parlamento non siede alcuna forza politica dichiaratamente fascista? Perché è cambiata la musica di fondo. Perché il fascismo, fin quando c’è stato il Msi, era ben individuabile e confinato in una riserva resa inoffensiva dal fatto che nessun’altra forza politica ci dialogava. È proprio dopo lo scioglimento del Msi che il virus fascista, invisibile come tutti i virus, ha cominciato a contaminare di sé il resto della scena politica. È successo con lo sdoganamento degli ex fascisti prima da parte di Berlusconi, poi da parte di una parte della sinistra stessa. Ed è proseguito con la comparsa sul proscenio di forze e personaggi politici che la quella storia (Salò, i fascisti, il Msi) la vedono lontana, sfocata, e che anzi si servono dei sentimenti di rivalsa, paura e pregiudizio nei confronti delle minoranze che da essa tuttora promanano per sfruttarli sciaguratamente a fini elettorali. Il fascismo non c’è più, ma ne siamo in qualche modo circondati. E chi ne evoca il pericolo è trattato come persona fuori dal tempo proprio da chi usa pose tipicamente nazifasciste e gioca sulla paura della contaminazione della razza (che oggi si chiama cultura), sulla volontà di negazione di diritti alle minoranze, mascherandola da difesa, perché i nazifascisti, costitutivamente violenti, mascherano sempre l’attacco con la difesa.

Per questo desta perplessità quella vasta schiera di persone, tanto vasta da dare vita a un vero e proprio movimento (immobile, ma pur sempre movimento, una maggioranza silenziosa, si sarebbe detto una volta), che sostiene, con alzatine di spalle più o meno sprezzanti, che il pericolo fascista non esiste. Certo, non c’è più un Mussolini in anfibi e divisa pronto ad allearsi con Hitler e a minacciarci la libertà; non ci sono le squadracce che incendiano le case del popolo. Ma c’è un germe sempre più diffuso di volontà di sopraffazione di maggioranze ai danni di minoranze; c’è una logica di comando e, per converso, di obbedienza cieca, a tutti i livelli, che preoccupa e si traduce in politiche di esclusione e tagli. E che è anche frutto dell’anestetizzazione del 25 Aprile, che fu insubordinazione all’abominio, fu un “no” scandito forte e chiaro. Fu il fondamento di ciò che dovremmo ancora essere. Basti ricordare che il 25 Aprile festa nazionale fu proclamato da De Gasperi, democristiano, nel 1949, quando i comunisti al governo non c’erano più. Di parte sì, insomma, ma fino a un certo punto.

In copertina, la prima pagina dell'Avanti del 27 aprile 1945
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Fabrizio Marcucci
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