In queste settimane si è parlato dei 4 milioni e mezzo di poveri residenti in Italia. La cifra, certificata dall'Istat, è davvero molto alta, più che doppia rispetto al 2005. Vediamo le caratteristiche dei poveri oggi e le condizioni sociali che favoriscono la deprivazione materiale.
Ugo Carlone
Non possiamo non accorgerci che la povertà fa parte integrante della nostra società. A tutti è capitato di conoscere persone che hanno notevolmente abbassato il loro tenore di vita in questi anni, di avere parenti che non ce la fanno a pagare le bollette o l’affitto a fine mese, di venire a sapere che il tal dei tali è sprofondato in crisi economica, oppure di essere, lui stesso e i propri figli se li ha, in uno stato di deprivazione materiale, come si usa dire oggi. Deprivazione: significa, per i vocabolari, “insufficienza di elementi o condizioni essenziali al compiuto sviluppo e alla soddisfazione delle necessità dell’individuo”, “privazione, esclusione dal godimento di un bene o dalla soddisfazione di un bisogno”, o, più compiutamente, “sottrazione, assenza di ciò che è necessario e in particolare, nell’essere umano, di diritti considerati naturali e inalienabili”. Chi è deprivato non ha soltanto problemi economici: è anche ad altissimo rischio di esclusione sociale, di non partecipare alla vita pubblica, di non avere relazioni con gli altri soddisfacenti e durature, di non godere di buona salute. Di essere additato come fallito, stigmatizzato come perdente. Anche evitato, se si può.
Ma quali caratteristiche ha la povertà oggi, nel nostro paese? Chi sono i deprivati, da quali famiglie vengono? Quali sono le condizioni sociali che ne favoriscono l’ingresso o la permanenza? Proviamo a fornire un quadro sintetico, da affiancare anche al dibattito sul reddito minimo in cui siamo entrati con un paio di articoli (per leggerli, cliccate qui e qui). Le politiche sociali, infatti, ed in particolare gli interventi di contrasto alla povertà come il reddito minimo, sono nate per far fronte proprio ai problemi di disagio economico. I welfare state dei diversi stati nazionali si sono edificati a partire dall’esigenza di garantire la sussistenza più o meno a tutti, e le misure di reddito minimo (cioè, in estrema sintesi, il riconoscimento di una somma, erogata dai servizi pubblici, sufficiente a poter vivere dignitosamente) sono tra i pilastri fondamentali della protezione sociale. Ovunque, in Europa. Tranne in Italia, in cui non esiste una misura nazionale uniforme di contrasto alla povertà. Il tutto è demandato a interventi statali (numerosi ma estremamente frammentati, disomogenei e categoriali, cioè diretti solo ad alcuni gruppi sociali svantaggiati), comunali (cioè a discrezione degli enti locali) e ovviamente, vista la carenza pubblica, del volontariato. Una situazione a macchia di leopardo – cuius regio, eius religio – dove la risposta alla povertà dipende da dove si è nati o si risiede, non dall’esserlo o no: di solito, è migliore al Nord rispetto al Sud, ma non sempre. Per rimediare a questa grave lacuna, una ventina di anni fa è stato sperimentato il Reddito Minimo di Inserimeno (ne abbiamo parlato qui), ma solo per due-quattro anni. Attualmente, il Governo e il Parlamento stanno varando una misura chiamata Reddito di Inclusione, che però per alcuni somiglia tanto ad una “mancetta” (ne riparleremo), non al riconoscimento di un vero e proprio diritto ad una vita dignitosa. Eppure, “ce lo chiede l’Europa”, visto che l’art. 34 della Carta di Nizza, cioè la “Carta dei diritti” dell’Unione, così recita: “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti”. È quindi di dignità che si parla.
Brutti, i numeri
Veniamo ai dati generali, poi focalizzeremo l’attenzione su due aspetti in particolare, la povertà dei minori e quella di chi lavora. Utilizzeremo prevalentemente la fonte Istat, senz’altro la più autorevole sul tema, che studia la povertà cosiddetta assoluta, cioè quella calcolata sulla base di una soglia corrispondente alla spesa mensile minima necessaria per acquisire un paniere di beni e servizi considerato essenziale a uno standard di vita minimamente accettabile. Sono classificate come assolutamente povere le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia. Parliamo quindi di famiglie e soggetti che non possono permettersi (in maniera più o meno intensa) un’alimentazione adeguata e un’abitazione decente, o soddisfare le esigenze minime nel vestirsi, comunicare, informarsi, muoversi sul territorio, istruirsi e mantenersi in buona salute. L’indagine non prende in considerazione i senza fissa dimora, oggetto di un’altra specifica ricerca dell’Istat.
I numeri bruti sono circolati molto in queste settimane. Le famiglie povere, nel 2015, sono 1 milione e 582 mila, pari al 6,1% del totale. Se consideriamo i singoli individui, la percentuale sale al 7,6%, che corrisponde a 4 milioni e 598 mila persone. Rispetto al 2014 si registra un leggero aumento, visto che un anno fa era povero il 5,7% delle famiglie e il 6,8% degli individui. Il dato del 2015 è il peggiore dal 2005 ad oggi: prima della crisi, infatti, la quota di persone in povertà assoluta era intorno al 3%. I poveri, in dieci anni, sono quindi più che raddoppiati. La discrepanza tra famiglie e individui è dovuta al fatto che le famiglie più numerose hanno, come vedremo, maggior probabilità di cadere nello stato di povertà e sono quelle tra cui è più cresciuta la deprivazione. Secondo l’Istat, il peggioramento dell’ultimo anno “si deve principalmente all’aumento della condizione di povertà assoluta tra le famiglie con 4 componenti (da 6,7% del 2014 a 9,5%), soprattutto coppie con 2 figli (da 5,9% a 8,6%) e tra le famiglie di soli stranieri (da 23,4% a 28,3%), in media più numerose”.
Come noto, c’è un forte squilibrio nelle varie zone d’Italia: al Sud la povertà assoluta tocca il 10,0% secco degli individui, al Centro il 5,6% e al Nord il 6,7%. Ne consegue che i poveri sono nel 45,3% dei casi meridionali (cioè un povero su due risiede al Sud). Non c’è, invece, una notevole differenza tra maschi e femmine: sono poveri il 7,9% dei primi e il 7,3% delle seconde. Cambia molto l’incidenza a seconda della fascia d’età: ben il 10,9% dei minorenni e il 9,9% dei giovani in età compresa tra 18 e 34 anni è in stato di deprivazione materiale (in aumento rispetto al 2014, quando erano il 10,0% e l’,8,1%), contro il 7,2% di chi ha tra 35 e 64 anni e il 4,1% degli anziani con più di 65 anni. Il fenomeno della povertà minorile è in netto aumento, visto che i minorenni in questa condizione, nel 2015, sono circa il doppio di quelli stimati nel 2011 e il triplo di quelli del 2008. I più anziani sono stati i meno colpiti dalla crisi, anche per effetto della sostanziale “tenuta” delle pensioni. I giovani, come ribadito a più riprese un po’ ovunque, costituiscono invece la popolazione su cui più ha pesato la Grande Recessione.
Veniamo all’ampiezza della famiglia. Qui, agisce una sorta di economia di scala alla rovescia: più questa è numerosa, più ha possibilità di essere povera. E la presenza di figli (minori) gioca il ruolo più importante: le famiglie con 3 o più figli minori sono notevolmente le più colpite, con un’incidenza pari al 18,3% (cioè una famiglia numerosa su cinque – erano solo il 6,9% nel 2005), seguite da quelle con 2 figli minori con l’11,2%, mentre avere un solo figlio abbassa la quota al 6,5%. In totale, tra le famiglie con almeno un figlio minore, il 9,3% è povero, in leggero aumento rispetto al 2014 (8,4%) e in nettissima crescita rispetto al 2005, quando il valore era pari al 2,8%. La presenza di anziani in casa costituisce un fattore di protezione, visto che le famiglie in cui vive almeno una persona ultrasessantacinquenne sono povere solo nel 4,3% dei casi.
L’istruzione influisce sulla probabilità di cadere in povertà: solo il 3,5% di chi è diplomato o laureato è povero (ma era lo 0,9% nel 2005), contro l’8,5% circa di chi ha un titolo di studio pari alla licenza di scuola media o inferiore. E, ovviamente, anche la condizione e la posizione professionale sono un ottimo predittore: il 19,8% di chi è in cerca di occupazione è povero (era il 16,2% nel 2014, quindi chi non lavora oggi sta peggio di un anno fa), contro il 6,1% di chi è occupato. La differenza è molta, e non stupisce. Va letto meglio, però, quel 6,1%: sta a significare che moltissimi individui lavorano, ma sono poveri (soprattutto tra gli operai, dove raggiungono l’11,9% – solo il 3,9% nel 2005), oltretutto in aumento rispetto ad un anno fa (erano il 5,2%) e soprattutto rispetto a dieci anni fa (il 2,2% nel 2005). Il lavoro, quindi, non è di per sé sufficiente per uscire dalla povertà. È il fenomeno dei working poors e dell’in work poverty: lavoratori poveri, soprattutto dipendenti, anche se non mancano gli autonomi, che percepiscono un salario che non basta ad assicurare a sé o alla propria famiglia un reddito sufficiente. Diminuisce invece, in un anno, la quota di pensionati deprivati (dal 4,4% al 3,8%).
Ed eccoci ad uno dei risultati più eclatanti, poco sottolineato: il 28,3% delle famiglie composte da soli stranieri è povero, contro il 4,4% delle famiglie con soli italiani. Quindi, quasi una famiglia di stranieri su tre è povera. E ci sono notevoli differenze tra le zone italiane: la cifra infatti sale addirittura al 32,1% al Nord, contro il 23,4% del Sud e il 20,3% del Centro. Il dato è ancor più significativo se facciamo un confronto con il 2014, quando ad essere povero era il 23,4% delle famiglie di stranieri, una percentuale più bassa di circa cinque punti percentuali. Al Nord erano povere il 24,0% delle famiglie di stranieri, addirittura l’8% in meno.
I numeri che abbiamo appena analizzati possono essere letti insieme ad altri di fonte Eurostat (l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea), che ogni anno conduce l’indagine campionaria Reddito e condizioni di vita (EU SILC). Secondo questa ricerca, i cui dati sono riferiti al 2014, in Italia le famiglie che non riescono a sostenere spese impreviste di 800 euro sono ben il 38,8% del totale. Non possono permettersi una settimana di ferie in un anno lontano da casa il 49,5%, circa la metà degli italiani. Ha arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti il 14,3%. Il 12,6%, invece, non riesce a fare un pasto adeguato almeno ogni due giorni, mentre non riesce a scaldare adeguatamente l’abitazione il 18,0%. Anche in questo caso, le percentuali maggiori si registrano nel caso di famiglie residenti al Sud, con cinque o più componenti, con un solo percettore di reddito, con tre o più figli (soprattutto se minorenni).
Piccoli e poveri
Come abbiamo visto, circa il 10% dei minori e dei giovani è in stato di povertà assoluta: una cifra enorme, che equivale a 1 milione e 130 mila persone sotto i 18 anni e 1 milione e 13 mila con età compresa tra 18 e 34 anni. Come si legge nel testo che l’Istat ha presentato alla Camera dei Deputati il 14 marzo del 2016, in occasione dell’audizione per il disegno di legge delega al Governo su “Norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni e al sistema degli interventi e dei servizi sociali”, i cui dati sono riferiti al 2014, l’incidenza di povertà assoluta tra i minori è più elevata nel Nord e nel Mezzogiorno (10,5 e 10,4%, contro il 7,9% nel Centro) e nelle aree metropolitane (10,8%, per un totale di 92 mila minori), soprattutto in quelle del Nord (19,1%). Quasi tutti i minori in povertà assoluta ha genitori con un titolo di studio non elevato (nel 97% dei casi, al più il diploma di scuola media superiore) e il 60% ha un solo genitore occupato, molto spesso con un basso profilo professionale. Poi, il dato, eclatante, sugli stranieri: come abbiamo visto per il 2015, anche nel 2014 circa un terzo delle famiglie straniere è in povertà assoluta, per un totale di 406 mila minori, con un’incidenza elevata (19,8%, pari a 84 mila soggetti sotto i 18 anni) anche tra i minori che vivono in famiglie miste. La differenza tra Nord e Sud è evidente: i minori stranieri costituiscono il il 63% dei minori in povertà assoluta nel Nord e solo il 14% nel Mezzogiorno, per effetto della maggiore presenza di stranieri nel Settentrione.
L’indagine EU SILC prima citata, poi, ci dice che tra le famiglie con tre o più minori il 54,0% non riesce a sostenere spese impreviste di 800 euro, il 57,0% non può permettersi una settimana di ferie in un anno lontano da casa, il 27,8% ha arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti, il 20,7% non riesce a fare un pasto adeguato almeno ogni due giorni e il 28,1% non riesce a riscaldare adeguatamente l’abitazione. Tutte percentuali ben al di sopra della media nazionale, in particolare quella relativa agli arretrati sui pagamenti, addirittura il doppio di quella italiana.
Essere poveri da bambini è un’esperienza tremenda. Significa, con tutta probabilità, non riuscire a completare il ciclo dell’istruzione, vivere in appartamenti sovraffollati, non curare abbastanza la propria salute e il proprio sviluppo psico-fisico, rischiare di far parte di gruppi e gruppetti “devianti” se non criminali e tante altre cose ancora. Tutte situazioni che condizionano il futuro adulto, negativamente. Ma come mai assistiamo all’aumento della povertà tra i minori (e tra i giovani)? L’Istat, nell’audizione alla Camera prima citata, individua due motivi. Il primo è la mancanza o la scarsità di lavoro: “negli ultimi anni, la difficile condizione del mercato del lavoro ha aumentato la vulnerabilità [delle famiglie numerose] e aggravato l’incidenza di povertà tra i minori. Per queste categorie il rischio di povertà è divenuto più alto perché i percettori di reddito da lavoro sono più spesso assenti o in numero scarso”. E, sotto questo profilo, l’aumento dell’incidenza della povertà tra i minori è, sempre secondo l’Istat, il “cambiamento più evidente” nel profilo della povertà in Italia, dovuto “alle difficoltà dei giovani, anche al Centro-Nord, nel sostenere il peso economico della prima fase del ciclo di vita familiare, a seguito della scarsa e precaria domanda di lavoro”. Il secondo è costituito dalle deficienze del nostro welfare state: “il sistema di trasferimenti sociali attualmente in vigore (quasi totalmente concentrato sui trasferimenti pensionistici) agisce soprattutto nel ridurre l’esposizione al rischio di povertà delle persone sole e delle coppie senza figli, specialmente in età avanzata, ma è meno in grado di sostenere le coppie con figli minori e le famiglie numerose con almeno 5 componenti”. Basti pensare che percepire l’assegno per il nucleo familiare (una delle tante, ma scarse e confuse, misure contro la povertà in Italia), non riesce a far uscire dalla deprivazione i beneficiari, visto che viene erogato a più di 230 mila nuclei con tre o più figli minori, ma il 18,6% di famiglie di questo tipo (cioè 143 mila unità) continua ad essere in povertà assoluta, per un totale di 375 mila minori. Insomma, i minori poveri aumentano per effetto della crisi e della conseguente scarsità di lavoro, soprattutto per le coppie giovani e perché, semplicemente, il welfare italiano non è attrezzato per contrastare il fenomeno.
Lavorare non basta
Abbiamo visto che ben il 6,1% degli occupati è in condizioni di povertà assoluta e in particolare che l’11,7% di coloro che l’Istat qualifica come “operai e assimiliati” è deprivato. Si tratta di crifre molto significative: ci dicono che percepire redditi non basta più, se questi non sono adeguati a soddisfare le esigenze personali o delle famiglie in cui si vive. Ce ne accorgiamo anche se guardiamo ai dati Eurostat: tra le famiglie con un solo percettore di reddito (quindi con qualcuno che lavora o gode di una pensione), il 51,0% non riesce a sostenere spese impreviste di 800 euro, il 58,5% non può permettersi una settimana di ferie in un anno lontano da casa, il 17,6% ha arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti, il 17,3% non riesce a fare un pasto adeguato almeno ogni due giorni e il 24,0% non riesce a riscaldare adeguatamente l’abitazione. Queste percentuali, chiaramente, scendono se consideriamo le famiglie con due percettori di reddito, ma sono comunque elevate: ci dicono che una famiglia con due redditi su tre non riesce a sostenere una spesa imprevista di 800 euro e quasi la metà non può fare vacanze.
Lavorare non basta, quindi. Si può essere occupati e poveri allo stesso tempo. Lo spiega benissimo Chiara Saraceno nel suo ultimo libro, Il lavoro non basta. La povertà in Europa negli anni della crisi (Feltrinelli, 2015). Secondo la studiosa, il rapporto tra lavoro e povertà “non è lineare” e dipende dalle diverse condizioni in cui si trovano i soggetti meno abbienti. Prima della crisi, l’occupazione è aumentata, ma la povertà non è contemporaneamente diminuita. Come mai? Innanzitutto, per la cosiddetta polarizzazione tra famiglie ricche di lavoro e famiglie povere di lavoro: le prime sono composte da individui più istruiti e con più competenze professionali delle seconde e hanno beneficiato dell’aumento dell’occupazione pre-crisi in maniera più consistente. Poi, per il trade-off tra aumento dell’occupazione e livelli salariali e di protezione: la creazione di posti di lavoro ha potuto godere dell’abbassamento dei livelli garanzia, con la diffusione delle occupazioni precarie e con meno tutele. Con la crisi, è aumentato sia il numero dei disoccupati, sia la quota di individui che vivono in famiglie senza lavoro, sia il numero dei lavoratori poveri. I lavoratori poveri possono essere distinti tra poveri da lavoro e lavoratori poveri su base famigliare. I primi sono occupati a basso salario e guadagnano eno dei due terzi della retribuzione mediana dei lavoratori a tempo pieno nel loro paese (secondo la definizione dell’Ocse) o meno del 60% della retribuzione mensile mediana calcolata tra tutti i lavoratori (secondo l’Eurostat). Si tratta, riporta Saraceno, di persone il più delle volte con bassi livelli di istruzione, concentrati soprattutto nel commercio al dettaglio, nel settore alberghiero e catering, in agricoltura e nei servizi alla persona, più spesso donne (per effetto del part-time involontario); alto è il rischio di ereditare questa condizione dalla precedente generazione (effetto delle disuguaglianze sociali) e di rimanere “incastrati” in tale condizione lungo tutto il corso della vita, e non solo in maniera transitoria. I lavoratori poveri su base famigliare, invece, sono coloro che non sempre ricevono una retribuzione bassa, ma, tenendo conto degli altri redditi famigliari e della composizione del nucleo in cui vivono, possono contare su un reddito inferiore al 60% di quello mediano pro capite (Eurostat). L’esempio dei lavoratori a bassa retribuzione e dei lavoratori poveri su base famigliare porta Saraceno ad affermare che non sempre avere un lavoro protegge dalla povertà o aiuta ad uscirne: secondo un rapporto citato nel libro, “solo nella metà dei casi chi era povero perché disoccupato è uscito dalla povertà quando ha trovato un lavoro. In parte ciò è dipeso dal fatto che sono diventati lavoratori a basso salario senza poter contare su altri redditi famigliari. Ma in parte è dipeso anche dal fatto che un reddito da lavoro non basso in termini convenzionali, ma modesto, può non essere sufficiente a far stare fuori dalla povertà, se inadeguato rispetto ai bisogni famigliari”. Ovviamente, “essere un lavoratore povero su base famigliare comporta che anche tutti i componenti della sua famiglia lo siano a loro volta”. Per questo motivo, “in diversi paesi, in particolare in Italia, gli stranieri immigrati sono fortemente concentrati tra i lavoratori poveri, perché spesso combinano un basso salario con un alto carico famigliare”. All’interno di ciascun paese europeo, la percentuale di lavoratori poveri cambia, in funzione sia del tasso di occupazione femminile (dove è più alto, si abbassa la quota), sia del sostegno al costo dei figli da parte del welfare. “Vi è una stretta interdipendenza tra caratteristiche dei welfare state, caratteristiche e composizione delle famiglie e tasso di partecipazione al mercato del lavoro dei componenti dei nuclei famigliari”. E con la crisi, sono state ridotte le politiche di conciliazione tra vita e lavoro, quelle cioè che permettono alle donne con carico famigliare (specialmente con redditi bassi) di rimanere nel mercato occupazionale. Ecco perché Saraceno pensa che le politiche per il contrasto alla povertà e quelle per il lavoro andrebbero tenute parzialmente distinte, visto che non puntano per forza allo stesso target: “pensare che l’aumento dell’occupazione generi automaticamente una riduzione della povertà può […] essere un’illusione, se non si considera attentamente di che tipo di occupazione si tratta e chi è più probabile che benefici dell’aumento della domanda di lavoro”.
Anni di dosi massicce di flessibilità trasformata in precarizzazione e di crisi economica che ha bruciato occupazione ci consegnano un quadro in cui il lavoro non basta più a tutelare dalla deprivazione se stessi e la famiglia in cui si vive. Nel mondo occidentale post seconda guerra mondiale, bastava che “l’uomo di casa” avesse un’occupazione (il male breadwinner), che quasi sempre era garantita e a tempo indeterminato, perché il nucleo familiare sopravvivesse più che decentemente, con la moglie-madre il più delle volte non occupata. Oggi non è più così: c’è bisogno di almeno due redditi, e anche questo spesso non basta, sia perché i salari possono essere insufficienti, sia perché, in troppe situazioni, questi stessi redditi non sono sicuri, visto che i contratti sono a tempo determinato o comunque precari.
In attesa di un cambiamento epocale che, questo sì, “cambi verso” ai meccanismi economici dominanti, intervenendo ex ante (noi ci speriamo), spetterebbe ai sistemi di welfare proteggere tutti gli individui dalla povertà, garantendo a tutti un tenore di vita dignitoso.
Foto di copertina di Cyril Rana. Le vignette sono di Mauro Biani (sito - FB - Tw)
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