I lavoratori che si fanno carico di mantenere in vita le imprese che i loro datori decidono di mollare sono un fenomeno planetario. E anche se non ne parla (quasi) nessuno si tratta di migliaia di persone che possono rappresentare un modello.

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Fabrizio Marcucci

Li trovi in entrambe le sponde dell’Atlantico. E producono di tutto. Attraversano il tempo, recuperando il meglio del passato per seminare un futuro migliore del presente. I lavoratori che si fanno carico di mantenere in vita le imprese che i loro datori decidono di mollare sono un fenomeno planetario. E anche se non ne parla (quasi) nessuno, si tratta di migliaia di persone le cui esperienze sono diventate oggetto di studio accademico per i ricercatori di Facultad Abierta, all’università di Buenos Aires; su di loro si sono concentrate le attenzioni di studiosi degli atenei di San Paolo e di Rio de Janeiro in Brasile. Le loro vicende sono seguite da un sito multilingue (www.workerscontrol.net). E l’istituto Euricse gli ha dedicato di recente un corposo e documentato capitolo nel rapporto 2015 sull’economia cooperativa (“Le imprese recuperate in Italia”).

Il fenomeno viene indicato tecnicamente con la locuzione “workers buyout”. Wikipedia la traduce così: “Operazione di acquisto di una società realizzata dai dipendenti dell’impresa stessa”. Una definizione algida che Angelo Mastrandrea non utilizza quasi mai. Lui al libro pubblicato qualche mese fa da Baldini&Castoldi in cui racconta decine di queste esperienze ha dato un titolo con un’anima diversa. Anzi, semplicemente con un’anima: “Lavoro senza padroni”. Perché non di sola scienza economica si tratta qui. Ma della possibilità di pensare la produzione di beni e servizi, e quindi la vita di chi a quella produzione provvede, in maniera diversa. E di farlo qui e ora. A partire da persone in carne e ossa che hanno deciso di diventare lavoratori senza padroni, appunto. E ci sono riuscite. “Nel mio viaggio fra le fabbriche recuperate – scrive Mastrandrea – ho visto di tutto, dalle piastrelle agli infissi, dai medicinali ai sanitari. E dunque l’unico limite è il coraggio al cambiamento”.


Il fenomeno delle fabbriche recuperate,
del lavorare senza padroni,
non è solo un modo per sbarcare il lunario:
è un altro modo di pensare la vita.


Già, il cambiamento. È la cifra distintiva di chi diventa lavoratore senza padroni. Ed è la vena che percorre il volume di Mastrandrea, che attraverso suggestivi salti di chilometri conduce da Latina alla Provenza ad Atene passando per l’America del sud, raccontando storie che sono l’altra faccia della crisi. La crisi. Proprio da lì, dalla crisi, questo libro è germogliato. Quando l’ha concepito, Mastrandrea stava viaggiando nel sud dell’Italia per descrivere le cicatrici lasciate dai morsi della depressione: i capannoni abbandonati dell’Agro Pontino, le file di immigrati a pietire una giornata di lavoro, la disperazione dei disoccupati. Tutte cose confluite ne “Il paese del sole”, che di “Lavoro senza padroni” è una sorta di prologo. A un certo punto però, la prospettiva è cambiata, appunto. “In quel mio viaggio mi sono imbattuto nei lavoratori della Mancoop – mi dice Mastrandrea, una vita al manifesto, autore di reportage per Internazionale e numerose altre riviste – e poi sai, da cosa nasce cosa”. E da cosa è nata cosa.

foto di Andrea Sabbadini

I lavoratori della Mancoop in assemblea (foto di Andrea Sabbadini)

La Mancoop è una delle fabbriche resuscitate grazie ai lavoratori che se la sono presa quando la proprietà ha deciso di andare via. Mastrandrea ne parla nel suo libro. E per capire cosa c’entri la parola cambiamento con le cose che stiamo dicendo qui, basta aprire il sito internet in cui l’azienda rinata si presenta, andare alla voce “La nostra missione” e leggere: “Lo scopo della Mancoop non è quello di creare gente ricca, ma dare sicurezza, dignità, futuro a tutti i componenti dell’organizzazione facendo forza sulla capacità e professionalità di cui i membri dell’organizzazione possono avvalersi”. Si capisce da una frase insomma, che siamo di fronte a qualcosa di più complesso e più grande della semplice attività lavorativa. Il fenomeno delle fabbriche recuperate, del lavorare senza padroni non è solo un modo per sbarcare il lunario: è un altro modo possibile di pensare la vita. Lo testimoniano non le teorie di cercatori di alternative, ma l’approccio, le produzioni, i legami intessuti con le comunità circostanti di chi si rende protagonista del recupero delle fabbriche. È il cambiamento, appunto, che questi “nuovi” lavoratori sentono per prima sulla loro pelle.

Vale per tutti l’esempio della televisione pubblica greca, chiusa nel 2013 dal governo Samaras in base ai dettami rigoristi dell’Ue e tenuta in vita dai giornalisti e dai tecnici con una lotta che ha qualche senso definire eroica. “Il fatto di aver costituito la voce della resistenza contro chi stava sfasciando la Grecia – scrive Mastrandrea nei loro riguardi – ha trasformato innanzitutto loro stessi, che hanno preteso un cambiamento radicale nel modo di fare informazione pubblica”. Cosa analoga è accaduta ai lavoratori della Fralib, i fralibien, la cui lotta ha assunto anche la forma di un rap che ha spopolato su youtube. Al termine dell’occupazione della fabbrica cui sono ricorsi per evitare che venissero portati via i macchinari, hanno deciso di ripartire dalla loro terra, la Provenza, per produrre con le fragranze che lì attecchiscono infusi per tisane. L’esatto contrario di quel che aveva
fatto la Unilever, la multinazionale che aveva globalizzato la fabbrica facendo arrivare da lontano le essenze, imboccando così di fatto la strada della crisi precedente alla riappropriazione dell’azienda da parte dei lavoratori.

Di esempi come questi, cioè di gente che cambia se stessa, i beni che produce e il modo in cui produrli, pullula la storia delle fabbriche rinate. Alla Rimaflow di Trezzano sul Naviglio, nella fabbrica che un tempo produceva per il settore automobilistico, oggi i lavoratori senza padrone recuperano telefonini e computer, contribuendo così a diminuire i rifiuti e riutilizzando beni che finirebbero a ingrossare discariche. A Officine Zero, a Roma, si fa più o meno la stessa cosa. E in molti di questi casi l’aggancio alla comunità intorno ha contribuito alla lotta per la rinascita. Perché all’inizio di queste storie c’è sempre da resistere: alla smobilitazione delle attrezzature, alla loro delocalizzazione. Anche con l’occupazione. Poi viene il resto: la costruzione, il piano industriale, la produzione spesso cambiata in meglio. Cioè rispettando ambiente e persone.

Alla base c’è “l’eredità del passato”, spiega Mastrandrea. È una questione di alfabetizzazione. Non ci s’inventa lavoratore senza padroni senza una solida coscienza maturata nel tempo. “Ti aspetteresti che una così spiccata tendenza all’innovazione scaturisse da fasce giovani – dice l’autore di “Lavoro senza padroni” – invece i protagonisti del recupero delle fabbriche sono per lo più quarantacinquantenni che hanno imparato a loro volta dai colleghi che li accolsero in azienda come si lavora, come ci si rapporta con la proprietà”, fin quando questa non scompare lasciandosi dietro solo detriti. È il salto indietro nel tempo per seminare il nuovo, appunto. È la riscoperta del mutualismo che fu alla base della nascita del movimento operaio come soggetto sociale. Un salto che è anche un modo, assai proficuo, di “riconiugare la lotta sindacale”, dice Mastrandrea. E che forse proprio per questo è guardato con qualche sospetto dai sindacati tradizionali, legati a forme e modelli che almeno in parte non reggono più l’urto dell’oggi. Non è un caso che di sindacati tradizionali, nel libro di Mastrandrea non ve ne siano grandi tracce. C’è invece tanto di quel capitale umano costituito da questi esempi di alternativa in carne e ossa.

Al momento si contano circa diecimila lavoratori impegnati in fabbriche recuperate da loro stessi in Argentina, lì dove tutto nacque in seguito al fracaso del 2002; a migliaia ce ne sono in Brasile. In Italia, il paese europeo col più alto numero di fabbriche recuperate dai lavoratori, Euricse ha contato 252 realtà del genere alla fine del 2014: la maggior parte nelle regioni del centro e con un numero di addetti tra i 10 e i 49. Si può parlare di un modello? “Sicuramente sì- risponde Mastrandrea – con almeno quattro varianti che secondo diversi gradi vanno dall’autogestione all’aiuto statale, passando per la cooperazione e la cogestione datori-lavoratori”. Le cose variano anche a seconda del contesto. Nel Venezuela (ex) chavista ad esempio, lo stato è (o almeno era) parte attiva nel consegnare le fabbriche ai lavoratori. In Grecia invece, non c’è ancora un supporto legislativo. In Italia c’è una legge del 1985 che prevede la possibilità di recupero aziendale da parte dei lavoratori con un apposito fondo. Un altro strumento lo ha messo in piedi Legacoop, che finanzia anch’essa con un fondo dedicato i sogni di chi vuol diventare lavoratore senza padrone. Ancora: in Argentina prevale lo spirito autogestionario, mentre in Brasile i lavoratori senza padroni tendono a istituzionalizzarsi di più.

Certo, la sponda istituzionale è utile. Ma senza la spinta dei lavoratori senza padroni non sarebbe possibile neanche pensarla. Un po’ come accadde con il mutualismo di fine ottocento, senza il quale non sarebbe stato pensabile lo stato sociale. Di buono c’è che la spinta c’è. Lo testimoniano la grande varietà di produzioni delle imprese che lavorano senza padroni. I loro successi. Lo testimonia un fenomeno multilingue e articolato che tiene accesa la speranza di un’alternativa reale. Come lo testimoniano la vita e l’entusiasmo delle persone che si sono riprese il loro lavoro e l’hanno rimesso al centro, sottraendolo alla massimizzazione del profitto e restituendogli così il suo valore.

(Gemenos, il primo incontro europeo dei lavoratori delle aziende recuperate nella 
fabbrica della Fralib, foto di Andrea Sabbadini)
Fabrizio Marcucci
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