Basta garantire un "reddito per tutti" a chi è stato colpito dal terremoto? No, certo che non basta. Ma sarebbe un aiuto concreto, una misura di rassicurazione per popolazioni molto provate, un segnale di interesse da parte dello Stato e una possibilità di sperimentare una misura innovativa e radicale, per rilanciare la protezione sociale in Italia.

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[Il testo che segue è la risposta ad un appello lanciato su www.comune-info.net da Lucilio Santoni e Alessandro Pertosa, per sperimentate il Reddito di Base Incondizionato nelle zone del Centro Italia colpite dal terremoto].

Ugo Carlone

Abbiamo bisogno di protezione. Abbiamo un sano (e molto robusto) bisogno di protezione. Fuori piove, parecchio, e abbiamo proprio bisogno di un ombrello che ci protegga. Il mare è alto e non tocchiamo, o rischiamo di andare nel panico anche se sappiamo nuotare benissimo: c’è bisogno di un salvagente che ci protegga. Camminiamo spesso su un filo, come degli equilibristi (o magari abbiamo solo l’impressione di farlo?), e ci serve una rete di protezione, se magari cadiamo. Serve protezione. Che, oltretutto, è una bella parola, specialmente se vicino ci mettiamo “sociale”.

La protezione sociale è stata una conquista, lottata, sudata, guadagnata con manifestazioni, scioperi, rivolte e anche morti. Certo, il welfare non sarebbe potuto nascere se le classi alte non avessero capito che era l’unico modo per tenere a bada le masse, per concedere loro qualcosa (talvolta parecchio), per mantenere l’ordine. Tutto vero, e va considerato. E c’è chi dice che questo patto ha tranciato le ali ad aspirazioni ancor più radicali. Ma lo stato sociale ha permesso a milioni e milioni di persone, almeno nel mondo “occidentale”, di risollevarsi dalla miseria e di uscire dalla povertà, o perlomeno di contenerne gli effetti. Il meccanismo è semplice, e la metafora dell’ombrello calza: fuori piove, apriamo l’ombrello e proteggiamoci. Più largo è, meno ci bagniamo. E, come si diceva, oggi piove parecchio, si potrebbe dire che grandina, o fa il temporale: non ovunque e non allo stesso modo, ma piove forte.

Adesso più che mai serve il welfare, allora, lo stato sociale. Occorre tornare indietro con i principi per andare avanti con le politiche, recuperando alcune belle parole d’ordine che non sono vecchie, ma soltanto classiche: protezione, assistenza, solidarietà sociale, politiche pubbliche. E quindi eguaglianza, giustizia, emancipazione. Mettiamo nel cassetto (senza buttarle via, perché dobbiamo ricordarci di averle usate) altre parole d’ordine, brutte, o che si sono prestate a brutti usi, anche loro malgrado: responsabilizzazione, empowerment, autonomia (a tutti i costi), flessibilità, estremizzazione dell’homo faber, essere artefici del proprio destino e via seguendo. Queste parole-concetti sono state come delle spezie, anzi degli aromi poco naturali, utili a condire il piatto freddo e amaro dell’individualismo come metodo di vita, di relazione, di economia, della favola dell’essere imprenditori di se stessi. Imprenditori di se stessi: uno dei peggiori e più nefasti slogan creati negli ultimi decenni. Che, da sogno di tutti, è diventato incubo personale, perché significa questo: risposte individuali a problemi collettivi. (Brutalmente: se perdi il lavoro, sono cavoli tuoi, perché fondamentalmente è colpa tua. Sì, ok, la crisi, la delocalizzazione, l’Europa, la Cina. Ma fondamentalmente è colpa tua, perché non sei riuscito a mantenere il posto, a far andare meglio l’azienda, a garantire quel lavoro entro quel certo tempo, ad andare d’accordo con il capo, ad essere flessibile nel modo corretto, a dare il giusto peso al lavoro – che ha la priorità – rispetto alla famiglia. E se non riesci a trovarlo, il lavoro, è perché non hai le competenze giuste, non ti dai da fare, non servi a nessuno, probabilmente vali anche poco. Hai sbagliato, hai fallito, è colpa tua. Non sei innocente: potevi fare sicuramente meglio e di più).

Dicevamo che serve il welfare. Ma così com’è, oggi, non va bene, anche se, almeno nel secolo scorso, ha rivoluzionato (perché in molti casi l’ha fatto) la vita dei subalterni. Pieno di pecche, di perversi meccanismi assistenzialistici (nel senso più deteriore), di clientelismo e anche corruzione, di scarsa efficienza e di sprechi: quante volte abbiamo parlato male dello stato sociale, specialmente in Italia! Tutto vero, analizzato e studiato a profusione. Ma se si vuole sostenere un recupero del welfare, non basta mettere le toppe su un vestito che non ci va più bene ed è pieno di buchi e strappi. Occorre rilanciare, cambiando passo e muovendosi come farebbe il cavallo negli scacchi: in avanti e lateralmente, allo stesso tempo. Due caselle oltre, e una in orizzontale. E qui veniamo al Reddito di Base Incondizionato (RBI) proposto da Pertosa e Santoni.

Una mossa in avanti: il RBI garantisce a tutti (ma proprio tutti) una base economica minima, una rete di protezione per non sprofondare. Certo, dipende da quanto è corposo, ma noi immaginiamo una misura che permetta, almeno, di non morire di fame, di non sentirsi completamente scoperti se si apre un’attività che poi non decolla, se si viene licenziati o si salta qualche mese o qualche anno tra un contratto e l’altro, se si è giovani e proprio non si riesce a trovare lavoro. Ma anche se si vuole prendere il part-time per stare con i figli, se si decide per un anno sabbatico e non si hanno i soldi sufficienti per mantenerselo, se si vuole andare in pensione qualche anno prima di averne così tanti da non potersela più godere. Perché il RBI intreccia, e molto, la questione dell’obbligo al lavoro, su cui Pertosa e Santoni hanno scritto parecchio (da ultimo uno splendido pamphlet: Lavorare sfianca). Ma restiamo al bisogno di sussistenza e all’ombrello protettivo in caso di temporale, che è più che sufficiente per giustificare il RBI: politicamente, economicamente (si può fare, se si vuole), ma soprattutto moralmente. Una mossa in avanti, perché oggi il welfare è in crisi, non solo perché spesso inefficiente (non utilizza al meglio i mezzi per i fini che si prefigge) e inefficace (non raggiunge i fini che si prefigge), ma anche perché iniquo (garantisce a macchia di leopardo, chi troppo, chi niente, specialmente in Italia) e quindi carente, terribilmente carente: non basta, non protegge a sufficienza, lascia troppe persone scoperte e in balìa degli eventi. La mossa in avanti è proprio una sua espansione (in netta controtendenza rispetto agli austeri tagli di oggi), in termini veramente, stavolta, universali.

Una mossa laterale: il RBI, così com’è pensato, non richiede nessuna contropartita, nessuna “rendicontazione” delle somme percepite, nessun obbligo a partecipare a programmi più o meno felici di inserimento sociale o lavorativo. È “incondizionato”, appunto: basta un cuore che batte, com’è stato detto. Sembra veramente partorito dai fautori del pensiero laterale, di chi cerca soluzioni diverse da quelle che ormai rischiano di essere datate e poco adeguate. Idee nuove per un vecchio principio, insomma: cioè, reddito per tutti per proteggere tutti.

Ed eccoci al terremoto e alla proposta di Pertosa e Santoni, e al loro appello per sperimentare nei territori colpiti dal sisma proprio un RBI. Beh, qui la metafora della pioggia è addirittura limitativa, quasi fuorviante. Qui non bisogna ricorrere alle peripezie acrobatiche della vita o al salvagente in mezzo al mare. Qui c’è stato proprio, l’evento nefasto. Che ha fatto una quantità di danni materiali difficilmente calcolabili, e danni immateriali del tutto incalcolabili. Spopolamento, trasferimenti “forzosi”, relazioni sociali in frantumi, vecchie certezze e abitudini di vita massacrate: giretti in piazza, chiacchiere col vicino, spesa nel negozietto di fiducia, messa la domenica, due parole al bar, tutte cose che ora, per troppi, semplicemente non esistono più.

Basta, di fronte a tutto questo, un reddito di base? Basta una mera erogazione economica? No, certo che non basta, è addirittura ovvio dirlo. Ma sarebbe, oltre che un aiuto veramente concreto, quello che si definisce “un bel segnale”. Un segnale che, innanzitutto, avrebbe un effetto tranquillizzante niente affatto secondario; una rassicurazione che, in popolazioni abituate a “ballare” con le scosse per tutto l’ultimo anno e mezzo, sarebbe tutt’altro che banale. Un segnale che lo Stato (sì, il vituperato Stato, il Pubblico) si occupa di chi sta veramente peggio e decide di sperimentare una misura così semplice e intuitiva, ma così innovativa e radicale, in una zona fortemente compromessa. Un segnale alle comunità locali, che potrebbero riflettere sul come ripensarsi e recuperarsi senza l’assillo del garantire il lavoro a tutti i costi.

Facile l’obiezione: si tratterebbe di mero assistenzialismo, lo Stato che versa soldi e fa pace con la propria coscienza. Un pozzo senza fondo, un territorio che da terribilmente sfortunato diventerebbe un Paese del Bengodi, dove si prendono denari senza lavorare. Un’altra roba tipica dell’Italia, che non sa come affrontare i problemi e lo fa in maniera semplicistica. Ma attenzione: “semplicistico” non è sinonimo di “semplice”. Il RBI è semplice, sì, ma non consiste “semplicemente” in una somma da erogare. Perché implica, come abbiamo cercato di dire prima, una mossa in avanti e laterale per le politiche pubbliche, per il miglioramento della protezione sociale. E allora si potrebbe rilanciare lo stato sociale proprio da territori colpiti in modo così emblematico, con una misura in grado di rinnovarlo in modo, appunto, semplice. Il RBI porta con sé un messaggio forte, che non è mai scontato: ognuno ha il diritto di vivere in maniera dignitosa e di non essere travolto dagli eventi della vita, calamità comprese, ovviamente. Significherebbe riconoscere ai marchigiani, ai laziali, agli abruzzesi e agli umbri colpiti dal terremoto un diritto, quello ad un’esistenza (più) protetta. Magari un primo passo, utile e d’impatto al tempo stesso, per fare via via più largo l’ombrello di cui abbiamo tutti bisogno. [Questo articolo esce in contemporanea anche su www.comune-info.net]

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In copertina, foto tratta da www.pixabay.com
Ugo Carlone
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